lunedì 22 aprile 2013

Su Amsterdam e sul lasciare i figli

Come annunciato dall'ultimo post, di dieci giorni fa ormai, un venerdì mattina sono salita su un aeroplano e sono andata ad Amsterdam.




E' stata la mia seconda volta ad Amsterdam. La prima risale a 6 anni fa, ai tempi di una delle mie vite precedenti e nello specifico a quella in terra di Fiandre, quando in giornata da Leuven ero andata con una ben assortita combriccola nei Paesi Bassi: non avevo visto un granché, quindi. Ricordavo il Vondel Park nel sole tiepido di settembre e le casette sui canali, quelle che credevo essere solo limitate ad un centro turistico, e il mio stupore nel realizzare che invece gran parte della città è come una cartolina. 

Che dire, io in questi paesi che da italiana posso definire "nordici" mi sento un po' a casa. Sarà per via del periodo trascorso in Belgio, che mi ha dato una buona infarinatura della stessa lingua che nei giorni ad Amsterdam mi ha permesso di decriptare con una certa disinvoltura indicazioni utili per pedoni e ciclisti e menu nei ristoranti. Sarà che il tempo mutevole mi si addice e che il calore che mi trasmettono case e locali mi dà la rassicurante sensazione di una vita confortevole e serena, al riparo dal freddo delle strade. Saranno tutte quelle biciclette e la vista dello sfrecciare di famiglie a bordo di sidecar a pedali, di amiche che chiacchierano pedalando veloci, di anziani con una meta.  Sì, tutti mi sembravano avere una meta, una tappa di un quotidiano ricco ma lento, anche le barche che la domenica, al primo raggio di sole, spuntano dappertutto nei canali. Mi sembrava tutto avvolgente e piacevole, affascinante.



Sarà la lontananza dall'Italia, questo paese che ho imparato a guardare da lontano, con gli occhi dell'affetto e dello sconforto, dell'orgoglio e della rassegnazione, quelli attraverso i quali alcuni paesi europei sembrano miraggi di civiltà, progresso e trasparenza. E infatti da mamma notavo come fossero più giovani e numerose le famiglie che vedevo passeggiare per le strade rispetto a quelle che normalmente mi capita di incrociare normalmente, segno, a mio parere, di una società che, grazie ad un'evoluzione della mentalità, sa tutelare i valori più tradizionali e la vita delle persone per come la natura la intende. 



Ad Amsterdam sono andata sola con A., lasciando Alessandro a casa con i nonni. Non sono mai stata lontana da lui per un periodo così lungo, ben 3 giorni. Al ritorno, appena mi ha vista, mi ha fatto un sorriso grandissimo che partiva dagli occhi e arrivava ai piedini tutti eccitati, e mi ha teso le braccia per farsi stringere. Mi guardava, rideva e poi mi riabbracciava e così per un bel po'. E devo dire che è stato bellissimo, perché in quei giorni senza di lui io lo pensavo sempre, ma lo sapevo al sicuro e coccolato, riuscendo ad approfittare dell'emozione del viaggio, del nuovo attorno a me e delle possibilità che si aprono quando non si ha un bambino con sé. 

Alcuni commenti un po' pungenti sulla nostra scelta di non portare Alessandro in viaggio con noi mi hanno fatta riflettere. E' egoismo desiderare e prendere del tempo per sé? E' indifferenza e superficialità nei confronti delle esigenze di un figlio quasi unenne che di altro non ha bisogno se non della vicinanza dei genitori e in particolare della mamma? Io, che a differenza di tante altre mamme con cui mi capita di confrontarmi che si dichiarano incapaci di lasciare il proprio bambino anche per poche ore riesco a staccarmi da mio figlio, sono meno mamma? 

Tutti questi dubbi che mi sono stati messi in testa mi hanno resa insicura. Per certi versi, mi sembra di riprovare la sensazione amarissima che mi pervadeva quando in gravidanza sentivo parlare di "mamme diverse" perché rifiutavano di soffrire per il parto e sceglievano l'epidurale, perché avevano visto nascere i propri bambini con un taglio cesareo, o, nei primi mesi di maternità, perché non avevano voluto allattarli o si erano date presto per vinte davanti alle difficoltà di un allattamento doloroso e limitante. 

Il mito della super mamma rispetto al quale qualunque mamma non può che sembrare una mamma sgangherata mi trova in conflitto, perché riduce a elemento secondario l'amore che una mamma prova per il proprio bambino mettendo in primo piano l'elemento sacrificio, come se amore e sacrificio fossero la stessa cosa. Io la vedo più complicata di così, forse sbaglierò, ma resto sempre della mia idea: a ognuna la propria maternità, onesta e imperfetta.






giovedì 11 aprile 2013

Next stop...

"If travel is searching and home what's been found, I'm not stopping, I'm going hunting" (Bjork, "Hunter")

mercoledì 3 aprile 2013

LDN


Londra per la sensazione di essere al centro del mondo. Perché da ogni punto della città parte un percorso diverso per attraversarla e viverla, percorsi di secoli fa e di qualche giorno fa appena.

Londra per la drogheria libanese accanto al pub irlandese. Per il café che ti fa sentire a Parigi e i nomi delle fermate della metro in inglese e in punjabi. 

Londra per le sue città dentro alla città. Fotografare i nuovi grattacieli della City di pomeriggio e passeggiare per Marylebone la sera. 

Londra per sapere già in quale parte della città vorrò andare la prossima volta in cui tornerò. Perché in 3 giorni vedi tutto e niente e perché comunque quando riparti ti viene il "mal di Londra" e pensi già a quando la rivedrai.

Londra per il traffico del centro che si ferma per il passaggio di un corteo di pattinatori vestiti da coniglietti il giorno di Pasqua che spingevano con sé persone in sedia a rotelle e bambini addormentati nei passeggini (nonostante la musica assordante). Perché è una metropoli magnetica, di quelle "ma che ci abito a fare io in un'altra parte del mondo mentre esistono posti come questo?". 


Alessandro, il suo papà A. ed io siamo partiti il sabato mattina all'alba e siamo ritornati il lunedì sera (non ci abbiamo capito una mazza sull'orario dell'arrivo del nostro volo di ritorno a Milano tra fuso orario, ora legale, orologio mezzo scarico e telefono che forse si sincronizzava da solo ma anche no): giusto quel boccone che ti fa venire voglia di addentare tutto il panino. 


Su Londra ho già detto, anche se non è abbastanza. 


Sul viaggiare con bambini quasi unenni: si può fare, si torna indietro tutti vivi. Per quanto riguarda Londra, basta non prendere la metro con il passeggino perché ancora poche stazioni sono dotate di ascensori, a meno di non essere sposate con Big Jim che trasporta e non cerca aiuto altrui con occhio implorante mentre il sudore gli annebbia la vista. Per il resto c'è tutto. Se poi il tuo quasi unenne scalpita nel seggiolone per assaggiare hummus al ristorante greco e in aereo non si sveglia neanche con il frastuono del decollo ti rendi conto che i bambini sono più di mondo degli adulti. Poi vabbè, all'atterraggio il quasi unenne vomita tutto il latte della colazione addosso a se stesso e alla mamma, ma gli imprevisti possono capitare ovunque, no? 

Di fatto, non è la prima volta che portiamo Alessandro con noi in qualche zingarata: siamo già stati ad Atene e a Lanzarote, viaggi di cui vorrei scrivere presto. Con un po' di organizzazione si può fare e lo faremmo molto di più se potessimo (per il momento Alessandro non può esprimere un eventuale disaccordo, quindi per il momento vale la regola del silenzio assenso). Di solito fa bene a tutti. Anzi, guardando il Big Ben pensavo a quella canzone che ad Alessandro piace tanto, quella di Peter Pan che dice "con un allegro pensier puoi la gioia suscitar..." e mi dicevo che un giorno ripenserò a quella volta in cui Alessandro, A. ed io siamo stati a Londra che Alessandro ancora non camminava e faceva un freddo becco che ogni volta per uscire ci volevano 10 minuti di meticolosa preparazione antigelo e tutto mi sembrava tanto un allegro pensier.

venerdì 8 marzo 2013

Laboratorio creativo blabla

Ieri era una di quelle giornate della serie "ma che §#*&% possiamo fare oggi?". Pioveva, Alessandro sembrava avere un po' di raffreddore, ma pur sempre ben intenzionato a tirar giù la casa con le sue diaboliche pensate o a farsi più o meno male (niente di nuovo insomma). 

Così, poco dopo pranzo, mi sono collegata a internet alla ricerca di qualche spunto per quel pomeriggio. Cercavo qualche idea per far scatenare Alessandro e "rilassarmi" allo stesso tempo.
Idea mia: lo porto alla grotta di sale. No, anche no, è troppo scomoda e oggi non ce la posso fare.
Ma ecco che Milano e la rete mi vengono in aiuto: proprio quel pomeriggio, si sarebbe tenuto un laboratorio creativo per mamma e bambino organizzato da un centro che offre iniziative a misura di mamma. Chiamo subito e prenoto il nostro posto. Il laboratorio consiste nel "giocare con la sabbia". Non che questo centro fosse più comodo della grotta di sale, ma tant'è. 

La premessa non è delle migliori perché proprio ieri pomeriggio il nano decide che deve riprendere l'abitudine del pisolino pomeridiano. Accade quindi che si addormenta prima in braccio a me, poi collassa sul divano e infine si fa caricare sul passeggino apparentemente privo di sensi. Arriviamo al centro che lui russa. 
Veniamo accolti da un'educatrice con un sorriso che mi ispira subito simpatia e affidabilità. Allo stesso tempo, Alessandro resuscita. Noi e un'altra coppia mamma-bambina veniamo accompagnati nella sala in cui si sarebbe tenuto il laboratorio: la sabbia era di fatto farina gialla, quella della polenta, sparsa su un telone di nylon sul pavimento, con secchielli e palette per ricreare l'effetto spiaggia. Resto inizialmente un po' perplessa, ma conto che il piccolo non ci farà caso e darà libero sfogo al suo istinto devastatore. 
Si aggiungono altre due bambine, una accompagnata dalla tata e un'altra sia dalla mamma che dalla tata (e la guardia del corpo e la protezione civile no?). La prima prende sul serio la spiaggia e inizia ad armeggiare con secchiello e formine neanche si sentisse a Copacabana. L'altra invece vede Alessandro ed esclama "that's a baby!", con orgoglio della mamma, che nel frattempo era andata a farsi una secchiata non di sabbia ma di casi suoi con l'altra mamma presente oltre a me, e della tata filippina a cui era toccato anche giocare con la "sabbia" ("seeeee certo, la sabbia, come no" sembrava pensare).
Comunque inizialmente procede tutto bene: Ale gioca con il secchiello, poi cerca di strappare di mano il rastrello alla bambina super sul pezzo che risponde con un quasi riuscito tentativo di rastrellargli il naso, altro che la sabbia di Copacabana, ride e via andare. In generale, nessuna bambina se lo fila. Quindi lui inizia a volersi fare i casi suoi a sua volta, cioè va gattonando per tutta la stanza, preferendo naturalmente fare visita a tutte le prese in vista ed evitando accuratamente la sabbia. Però anche le altre bambine lo fanno dopo un po'. Anzi, una, con tanto di biscotto sbriciolante in bocca e mani sbavusciate, mi si avvicina pericolosamente come per strapparmi la collana, ma quando punta agli stivali (con copri scarpa) interviene la mamma: "nuuuuuoooo, non toccare gli stivali, sono sporchi!". E io che pensavo le dicesse: "no cara, non disturbare la signora". Che sciocca sono. 
Il tutto si conclude con Ale che per la stanchezza mi si arrampica addosso e prende in prestito la mia mano per stropicciarsi gli occhi perché è troppo distrutto per stropicciarseli da solo e le altre mamme che parlano di pappe al farro (anzi, favvo, una r che era una v mica da poco) e delle malattie dei bambini delle loro amiche che lavorano e, povevette, sono costrette  a mandare i bambini al nido, non ci dovmo la notte al pensievo delle malattie che la bambina pvendevà alla matevna (forse la tata non ci dorme la notte) e delle due settimane di vacanze in montagna che le aspettano che sono una veva vottuva pevchè con la bambina cosa vuoi fave, passeggiate e nient'altvo.
Alessandro comunque sembra essersi divertito e in generale anche io, quindi la settimana prossima lo riporterò. Diffiderò di quella con i capelli all'indietro e il cerchietto leopardato (ah no, sarà in montagna). Il tema sarà il gioco con i colori (non ci dormo già la notte all'idea del successivo lavaggio dei vestiti).

Ieri sera farlo addormentare è stato un incontro di pugilato durato due ore, una serie di colpi bassi tipo dita nelle narici, piegamento della stanghetta dei miei occhiali e strappo dei capelli. Deve essere quella medicina che ci ha prescritto la pediatra qualche giorno fa (e te pareva che a noi non doveva capitare l'effetto collaterale poco diffuso). 
Si è addormentato nel lettone con me (e forse mi sono addormentata io prima di lui), ma poi ha dormito da solo nel suo lettino fino alle 6. Addirittura. 

E detto ciò, buona festa della donna a tutte e tutti. 
Per festeggiarmi, oggi a pranzo mi sono preparata pollo al curry con riso basmati e delle piccole tarte tatin (peccato che le mele si fossero attaccate alla formina e quindi il momento del ribaltamento non è stato proprio un momento di alta cucina), un bicchiere di vino rosso e auguri. Ho cucinato con Alessandro attaccato alle caviglie, quando non era occupato a ribaltare il cestino del pane e a disperdere per tutto il pavimento le briciole (che ha tentato di leccare varie volte), quindi non è stato molto rilassante, ma me lo dovevo. 
Chissà che stasera il mio ometto come mimosa non mi regali un addormentamento non dico facile, ma meno difficile del solito...

martedì 5 marzo 2013

Medicina creativa

Ok, prima la buona notizia. 
La buona notizia è che la visita di controllo con la pneumologa di questa mattina è andata benone. Alessandro non rantola più come un vecchio fumatore di sigari cubani e l'elenco dei farmaci con cui dovrà curarsi si è drasticamente ridotto.

Oh yeah!

Ora la cattiva. La cattiva notizia è che quelle due sole medicine che deve continuare a prendere, mattino e sera, per 40 giorni una e per 90 giorni l'altra, sono potenzialmente eccitanti (NB. In caso di tosse secca, il primo farmaco deve somministrarsi alle dosi più alte come all'inizio della terapia, quindi se al giorno 39 pensi di vedere la luce in fondo al tunnel ma parte la tosse secca, trac, devi ripartire dal via). 
Ora, ho appena scoperto che uno dei farmaci che già assume da una settimana altera il sonno e l'umore, non nel senso che fa dormire e fa vivere quietamente una vita serena (a tutti), ma ovviamente nel senso contrario: Alessandro ormai non sa più cosa sia il pisolino del pomeriggio. E il lettino...? Cos'è più il lettino? Quell'aggeggio che sto pensando di mettere in vendita su ebay? Ormai dorme solo con me e possibilmente ADDOSSO a me. Sarà il trauma dell'ospedale, i farmaci, boh. 
Comunque insomma, a quanto pare la bustina che ogni sera dovrà sciogliere nella pappa/yogurt/omogeneizzato per 3 mesi in alcuni casi rende inquieti i bambini. Ah, ma se la situazione andasse un po' tanto fuori controllo si potrebbe cambiare farmaco. E 'sti ca... Non possiamo dargli prima l'altro farmaco invece di rischiare di impazzire tutti quanti?

Se in gravidanza dicevo: in un'altra vita, farò la ginecologa
Se fino a poco fa dicevo: in un'altra vita, farò la pediatra
Adesso dico: in un'altra vita, farò la pneumologa. O l'esorcista.

Stasera quindi si inizia e come al solito che dire, io speriamo che me la cavo.

In ogni caso, stamattina Alessandro (che ormai tutti chiamiamo Aie perché è così che lo chiamava la nostra piccola compagna di vacanze natalizie) ha fatto anche il prelievo del sangue in ospedale ed è andata così bene che alla fine ha ricevuto anche il diploma di grande coraggio con il voto "super bravo". 
Queste sì che sono soddisfazioni!!

lunedì 4 marzo 2013

Fortuna fortunae

Premetto che ho pensato tanto se volessi scrivere o no dell'ultima (dis)avventura di cui Alessandro ed io ci siamo resi protagonisti e quando ho iniziato a scrivere e ho capito che non sarebbe stato facile rimanerne soddisfatta mi sono detta che non lo avrei fatto. Poi l'ho fatto lo stesso e quel che ne segue non è granché perché è ancora difficile mettere giù ogni cosa senza il rischio di risultare approssimativa o riduttiva, non tanto per chi legge, quanto per mio figlio e per me.

Essenzialmente, si tratta di una bronchite asmatica sfociata in insufficienza respiratoria trattata per qualche giorno nell'unità di terapia intensiva, risolta al meglio. Quindi, insomma, un colpo mica da poco, ma "all'ordine del giorno", per dirla molto male, considerato che si parla di bambini in inverno. Meno essenzialmente, quel che è stato nel profondo per noi è ancora dietro a un vetro opaco. Se mentre ci ero dentro andavo avanti concentrata come uno schiacciasassi o un cavallo con il paraocchi, al crollo dell'adrenalina sono crollata anche io. E infatti adesso mi sento come se fossimo tutti "in convalescenza". Intendiamoci, ero al posto giusto al momento giusto, quindi la paura è durata poco, ma tant'è il ricordo del respiro calante, del viso pallido e le palpebre a mezz'asta di mio figlio in braccio a me che mi sento come se fossi La Pietà di Michelangelo mi ferisce, forse poco alla luce del lieto fine o forse non tanto poco. Ancora non so.

Durante quei giorni ho incontrato tante mamme e qualche papà, tanti medici e tanti infermieri. C'era la confidenza con la malattia che porta a raccontarla come di un compagno di viaggio di sempre di cui si conosce ogni aspetto, confidenza che non significa necessariamente abitudine al dolore che comporta, ma mera familiarità. Qualche volta si può scherzare con la malattia perché l'intensità con cui ti penetra dal primo momento in cui inizi ad affrontarla fa sì che diventi un autentico "parente serpente"; spesso riesce bene ostentare leggerezza, però quello che ci si porta dentro alla fine delle proprie giornate, sia per chi è malato sia per chi gira attorno alla malattia, dal personale sanitario ai genitori, non saprei dirlo. Per mia fortuna, a me rimanevano solo tanta confusione e la sensazione che in fondo il prendere in giro la malattia durante le mie ore di veglia celasse un segno che faticava a rendersi invisibile, come una coperta troppo corta per un letto troppo lungo: per quanto la stendi, qualcosa resta pur sempre scoperto. 

Per mia fortuna, ho visto empatia e umanità, nonostante mio figlio non fosse né il primo né l'ultimo ad ammalarsi e io non fossi né la prima né l'ultima madre a vivere quella paura. Soprattutto, per mia fortuna, ho visto la cura e la guarigione. 

Comunque, l'ho detto qualche post fa: tanto vale scriverne. E a conti fatti posso dire che mi ha fatto bene.


Ad un certo punto arriva il momento in cui ci si improvvisa pediatri e Dalai Lama, ossia quello in cui si tira fuori tutto il proprio istinto materno e lo si asseconda nonostante le riserve altrui. Solo che dire alla fine "avevo ragione" non procura nessun piacere. Anzi.

Prima è arrivata la febbre del sabato sera, ma quella che non scende neanche con un estintore. Segue un respiro che si fa sempre più affannoso e accelerato e lui suda come fosse pieno agosto. Si fa mezzanotte e mezza e fuori nevica, ma si salta comunque in macchina con una destinazione precisa: il pronto soccorso.

E insomma che siamo arrivati lì e in un attimo diventiamo i primi della fila, così ci ritroviamo con la pediatra e un paio di infermiere attorno a noi che armeggiano con distanziatori, stetoscopi, mascherine e fanno domande sulle ore precedenti. "Fino a stamattina stava bene", è il filo conduttore delle nostre risposte. Tempo un paio d'ore veniamo accompagnati in pediatria, dove Alessandro ed io ci fermeremo fino alla mattina successiva. Dormire è impossibile, entrano ed escono pediatra e infermiere per sottoporre Alessandro a non so quanti trattamenti per l'asma in cui si era trasformato il colpo di tosse di qualche ora prima.

La domenica mattina lui stava solo peggio. Era diventato sempre più pallido e il respiro da veloce si stava facendo più lento. Ho invocato l'intervento di un pediatra e mi sono ritrovata a parlare con un'anestesista. Mica sapevo che in terapia intensiva lavorano gli anestesisti. Ah già, normalmente l'anestesista si occupa anche di rianimazione. "Possiamo aspettare ancora qualche ora e vedere come va", dice la pediatra. "No, dai, portiamolo su", dice l'anestesista. Al piano di sopra c'è la terapia intensiva pediatrica. E lì così siamo andati. Quella domenica Alessandro "festeggiava" i suoi 10 mesi.

Lui occupava il letto numero 4. La terapia intensiva è come una bolla. Un mondo quieto e solo apparentemente immobile, perché l'emergenza è sempre in agguato, perché è come camminare su un filo in tensione precaria ricercando l'equilibrio minuto per minuto. Alessandro è stato messo sotto a un caschetto trasparente attraverso cui passa aria che va direttamente su bocca e naso per aiutare i suoi bronchi ostruiti ad aprirsi. Sembrava un astronauta e a tratti riuscivo a prenderla come qualcosa di buffo, come se fosse solo una delle tante divertenti stranezze portate nella mia vita dal mio bambino. Però, mentre guardavo la neve cadere fuori dalla finestra mentre stringevo la mano di Alessandro seduta accanto al suo lettino, lo stordimento e la tristezza e la paura che si muovevano in sottofondo emergevano placidamente e si trasformavano in coraggio. Ne avevo già parlato, del coraggio, in un post di qualche tempo fa. Già, alla fine è sempre quello. Il coraggio delle mamme per cui vicino al mio piccolino diventavo una roccia e davanti ai medici ascoltavo con lucidità e non esisteva senso di solitudine e stanchezza che pesassero. Il coraggio per cui mi sentivo al sicuro dentro e fuori. 

E poi c'era la musicoterapia. Uno si immagina musica classica o New Age. E invece no: "So What?" di Pink, "Paradise City" dei Guns N' Roses sono solo alcune delle canzoni che ricordo di aver sentito in quei giorni. La mia idea è che quella sia la terapia per i parenti dei pazienti più che per i pazienti. Di certo, a me ascoltare "Twist and shout" dei Beatles mentre un infermiere mi spiegava come capire che il bambino stava dormendo guardando solo il monitor che indicava la sua frequenza respiratoria a me ha fatto bene. 

Sull'onda di uno stato d'animo positivo mi sono anche intrufolata nel reparto maternità per rivedere la "nostra" stanza dei giorni della permanenza in ospedale dopo la nascita e sì, è stato dolce e amaro allo stesso tempo, ma come poteva essere altrimenti?

Il martedì ero uscita per una passeggiata di decompressione in un improvviso e quanto mai benvenuto squarcio di primavera quando ho ricevuto la telefonata con cui dalla terapia intensiva mi informano che Alessandro stava per essere trasferito nuovamente in pediatria. Non che fosse proprio in forma quando l'ho trovato in pediatria, anzi, continuava a essere imbronciato e sonnolento, ma la rapidità del miglioramento è stata impressionante. Comunque la pediatria mi è sembrata il parco giochi: bambini che camminavano sulle proprie gambe, senza maschere per l'ossigeno sul viso né flebo. Assurdo come in un attimo fosse cambiato il mio punto di vista. 

Nella nostra stanza in pediatria avevamo a disposizione un letto per lui e una poltrona letto per me, che non ho neanche mai aperto. Lì abbiamo sempre dormito insieme. Se già eravamo uniti, in quei momenti eravamo tornati come quando lui era nella mia pancia, unito a me e dipendenti fisicamente l'uno dall'altra. Lì ha ricominciato lentamente a mangiare, a volersi muovere e a sorridere. Che meraviglioso stupore, che montagna russa.

Siamo tornati a casa giovedì pomeriggio, con un elenco di terapie che sembra la lista della spesa settimanale, ma eravamo pur sempre tornati dove tutto era iniziato. Durante il tragitto in auto rivivevo i momenti della prima volta in cui in aprile avevamo portato Alessandro a casa di appena 3 giorni. Guardavo le strade che mille volte abbiamo percorso insieme, io a piedi e lui nel suo passeggino, d'estate e d'inverno, nella nostra incasinata ma bellissima quotidianità, piena di piccoli e grandi riti e soprattutto d'amore. Non vedevo l'ora di ricominciare, lui ed io. Di rivederlo salire le scale mentre io mi lancio per fermarlo prima che scivoli, o aprire l'acqua del bidet bagnandosi fino al pannolino con il suo sorriso a 6 denti. Scacciavo finalmente i pensieri tristi e, mentre ci stringevamo per le dita, riprendevamo a respirare, tutti e due, insieme.





giovedì 21 febbraio 2013

E' una bella giornata da mamma quando...

... sei alla cassa del supermercato e con una mano sposti la spesa dal carrello al nastro della cassa mentre con l'altra impedisci a tuo figlio di buttarsi da quella parte del carrello fatto apposta per far stare seduti i bambini finché non lo metti direttamente dentro al carrello tra il detersivo per i piatti e i grissini (e poi lo porti fuori che sorride e fa ciao ciao con la manina a tutti in piedi nel carrello).

... attraversi la città per andare a trovare l'amica panciucchiera, la parrucchiera con il pancione, per una sacrosanta messa in piega e lui, che sembrava dormire placidamente nel seggiolino della macchina, rimette anche la cena di due settimane prima sul golfino pulito sporcandosi fin sotto al body (e naturalmente non hai cambi).

... nonostante la vomitata a getto, riesci a recuperare un cambio grazie all'amica panciucchiera e lo porti alla ludoteca con altre amiche mamme e figli pensando che lui possa sfogarsi e divertirsi e lui dorme fino a dieci minuti prima dell'ora in cui bisogna tornare a casa (e poi ci si dimentica che quella sera c'è Milan-Barcellona per cui la zona di San Siro è off limits e quindi per arrivare a casa ci metti più di 1 ora...).




martedì 19 febbraio 2013

Tanto vale scriverne

Montata come una barattolo di panna da un commento di qualche giorno fa di Nonaddetta (che ringrazio infinitamente!!) a un mio post sui 6 mesi di Alessandro, mi sono detta che sarei ritornata a scrivere. Ho lasciato che il mio blog facesse le ragnatele, ma in realtà è un peccato... Scrivere mi ha sempre fatto un gran bene. I miei Zibaldoni di pensieri, tanto per scomodare il povero Leopardi morto di gobba, per dirla alla Guzzanti, risalgono anche ai tempi delle elementari. E adesso che sto vivendo l'esperienza più travolgente della vita non scrivo più. Alto tradimento!

Ma sapete quale è la verità dei fatti? E' che io... Non ho tempo. Cioè, non ho neanche più la testa. 

Sì, la difficoltà è anche pratica, perché ormai Alessandro di mesi ne ha quasi 10 ed è entrato nella fase kamikaze, cioè cerca di farsi del male (magari intrufolandosi dietro alla televisione e cercando di tirarsela addosso), addirittura a volte suicidarsi (per esempio, infilando la testa tra lo schienale e la parte orizzontale di una sdraio nel tentativo concreto di auto decapitarsi), o solo di attentare gravemente alla mia (in)stabilità psicofisica (scendendo di sedere giù dal divano, incurante degli ammonimenti della mamma che si fionda per prenderlo, ma arriva tardi, e tira un sospirone di sollievo quando vede che lui è riuscito a non schiantarsi al suolo e sghignazza compiaciuto delle sue capacità). Insomma, non è proprio semplice mettere insieme del tempo ininterrotto per sedersi al computer e lasciarsi andare alle parole.

Il problema però è anche più profondo, nel senso che mi sento talmente assorbita dai miei compiti di mamma che è difficile potermi concentrare su altro. Voglio dire, anche quando non c'è Alessandro, mi sembra sempre che ci sia lo stesso: il pensiero "dov'è? E' un po' che non lo sento, avrà mica raggiunto lo scaffale delle posate e avrà fatto harakiri con il coltello del pane?" si ripete rincorrendomi in ogni momento, anche quando lui non c'è (il che, a dirla tutta, per scaricare dalle responsabilità esclusive la mia follia, non accade molto spesso). Quindi, quando sono da sola, a volte voglio solo buttarmi sul divano a vedere repliche di Grey's Anatomy in rapida successione fino all'abbruttimento, senza le sue ditina che mi cavano gli occhi e mi strappano i capelli e le sue urla per cui, arrivata alla terza serie, non sono ancora sicura di aver capito bene alcune cose risalenti alle serie precedenti (per esempio, ma Addison non doveva tornare a New York una decina di puntate fa? E perchè Mark che è arrivato a Seattle praticamente per turismo adesso è il super capo della chirurgia plastica? Non si fanno concorsi per assumere il personale in quell'ospedale? Bah). Oppure cucinare un pasto decente senza dover azzannare quel che capita perché intanto poi devo imboccare lui e lui infilerà le mani nel piatto, si spalmerà metà pappa sui vestiti, un po' di cibo finirà sul seggiolone e sul mobile alle sue spalle e sul tappeto, alla fine non mangerà e il tutto si concluderà in una merolata da manuale in cui lui piangerà fortissimo e io alla velocità della luce preparerò un biberon che gli darò da bere davanti alla tv sintonizzata su un programma che lui avrà selezionato malmenando il telecomando e che io non riuscirò a cambiare perché se usassi la mano che sta reggendo il biberon per prendere il telecomando lui si offenderebbe e riattaccherebbe con la merolata e via discorrendo. 

Insomma, a volte è difficile staccarsi da tutto questo. Tante vale scriverne.

Comunque Alessandro adesso sta diventando grandissimo, è pieno di denti e di capelli. In un attimo, voilà, da pulcino spelacchiato che era si è trasformato in un piccolo leone, un tripudio di riccioletti e incisivi. Adesso poi è così buffo, quando balla "a ritmo" di musica o quando sorride felice mentre si fa portare in giro per casa a bordo suo trenino, e soprattutto così affettuoso. Certo, i miei bicipiti ormai fanno un baffo a Juri Chechi e la mia schiena... Beh, lasciamo perdere la mia schiena, e sì, sarà anche una cozza perché stare in braccio gli piace assai e si aggrappa con le unghie ai miei vestiti per non farsi mettere giù e sarà diseducativo perché è un po' viziatello e tutti gli altri dogmi della maternità perfetta, ma cosa ci posso fare se anche a me piace assai?

Insomma, da tutto questo è sempre impossibile staccarsi. Tanto vale scriverne!