venerdì 8 marzo 2013

Laboratorio creativo blabla

Ieri era una di quelle giornate della serie "ma che §#*&% possiamo fare oggi?". Pioveva, Alessandro sembrava avere un po' di raffreddore, ma pur sempre ben intenzionato a tirar giù la casa con le sue diaboliche pensate o a farsi più o meno male (niente di nuovo insomma). 

Così, poco dopo pranzo, mi sono collegata a internet alla ricerca di qualche spunto per quel pomeriggio. Cercavo qualche idea per far scatenare Alessandro e "rilassarmi" allo stesso tempo.
Idea mia: lo porto alla grotta di sale. No, anche no, è troppo scomoda e oggi non ce la posso fare.
Ma ecco che Milano e la rete mi vengono in aiuto: proprio quel pomeriggio, si sarebbe tenuto un laboratorio creativo per mamma e bambino organizzato da un centro che offre iniziative a misura di mamma. Chiamo subito e prenoto il nostro posto. Il laboratorio consiste nel "giocare con la sabbia". Non che questo centro fosse più comodo della grotta di sale, ma tant'è. 

La premessa non è delle migliori perché proprio ieri pomeriggio il nano decide che deve riprendere l'abitudine del pisolino pomeridiano. Accade quindi che si addormenta prima in braccio a me, poi collassa sul divano e infine si fa caricare sul passeggino apparentemente privo di sensi. Arriviamo al centro che lui russa. 
Veniamo accolti da un'educatrice con un sorriso che mi ispira subito simpatia e affidabilità. Allo stesso tempo, Alessandro resuscita. Noi e un'altra coppia mamma-bambina veniamo accompagnati nella sala in cui si sarebbe tenuto il laboratorio: la sabbia era di fatto farina gialla, quella della polenta, sparsa su un telone di nylon sul pavimento, con secchielli e palette per ricreare l'effetto spiaggia. Resto inizialmente un po' perplessa, ma conto che il piccolo non ci farà caso e darà libero sfogo al suo istinto devastatore. 
Si aggiungono altre due bambine, una accompagnata dalla tata e un'altra sia dalla mamma che dalla tata (e la guardia del corpo e la protezione civile no?). La prima prende sul serio la spiaggia e inizia ad armeggiare con secchiello e formine neanche si sentisse a Copacabana. L'altra invece vede Alessandro ed esclama "that's a baby!", con orgoglio della mamma, che nel frattempo era andata a farsi una secchiata non di sabbia ma di casi suoi con l'altra mamma presente oltre a me, e della tata filippina a cui era toccato anche giocare con la "sabbia" ("seeeee certo, la sabbia, come no" sembrava pensare).
Comunque inizialmente procede tutto bene: Ale gioca con il secchiello, poi cerca di strappare di mano il rastrello alla bambina super sul pezzo che risponde con un quasi riuscito tentativo di rastrellargli il naso, altro che la sabbia di Copacabana, ride e via andare. In generale, nessuna bambina se lo fila. Quindi lui inizia a volersi fare i casi suoi a sua volta, cioè va gattonando per tutta la stanza, preferendo naturalmente fare visita a tutte le prese in vista ed evitando accuratamente la sabbia. Però anche le altre bambine lo fanno dopo un po'. Anzi, una, con tanto di biscotto sbriciolante in bocca e mani sbavusciate, mi si avvicina pericolosamente come per strapparmi la collana, ma quando punta agli stivali (con copri scarpa) interviene la mamma: "nuuuuuoooo, non toccare gli stivali, sono sporchi!". E io che pensavo le dicesse: "no cara, non disturbare la signora". Che sciocca sono. 
Il tutto si conclude con Ale che per la stanchezza mi si arrampica addosso e prende in prestito la mia mano per stropicciarsi gli occhi perché è troppo distrutto per stropicciarseli da solo e le altre mamme che parlano di pappe al farro (anzi, favvo, una r che era una v mica da poco) e delle malattie dei bambini delle loro amiche che lavorano e, povevette, sono costrette  a mandare i bambini al nido, non ci dovmo la notte al pensievo delle malattie che la bambina pvendevà alla matevna (forse la tata non ci dorme la notte) e delle due settimane di vacanze in montagna che le aspettano che sono una veva vottuva pevchè con la bambina cosa vuoi fave, passeggiate e nient'altvo.
Alessandro comunque sembra essersi divertito e in generale anche io, quindi la settimana prossima lo riporterò. Diffiderò di quella con i capelli all'indietro e il cerchietto leopardato (ah no, sarà in montagna). Il tema sarà il gioco con i colori (non ci dormo già la notte all'idea del successivo lavaggio dei vestiti).

Ieri sera farlo addormentare è stato un incontro di pugilato durato due ore, una serie di colpi bassi tipo dita nelle narici, piegamento della stanghetta dei miei occhiali e strappo dei capelli. Deve essere quella medicina che ci ha prescritto la pediatra qualche giorno fa (e te pareva che a noi non doveva capitare l'effetto collaterale poco diffuso). 
Si è addormentato nel lettone con me (e forse mi sono addormentata io prima di lui), ma poi ha dormito da solo nel suo lettino fino alle 6. Addirittura. 

E detto ciò, buona festa della donna a tutte e tutti. 
Per festeggiarmi, oggi a pranzo mi sono preparata pollo al curry con riso basmati e delle piccole tarte tatin (peccato che le mele si fossero attaccate alla formina e quindi il momento del ribaltamento non è stato proprio un momento di alta cucina), un bicchiere di vino rosso e auguri. Ho cucinato con Alessandro attaccato alle caviglie, quando non era occupato a ribaltare il cestino del pane e a disperdere per tutto il pavimento le briciole (che ha tentato di leccare varie volte), quindi non è stato molto rilassante, ma me lo dovevo. 
Chissà che stasera il mio ometto come mimosa non mi regali un addormentamento non dico facile, ma meno difficile del solito...

martedì 5 marzo 2013

Medicina creativa

Ok, prima la buona notizia. 
La buona notizia è che la visita di controllo con la pneumologa di questa mattina è andata benone. Alessandro non rantola più come un vecchio fumatore di sigari cubani e l'elenco dei farmaci con cui dovrà curarsi si è drasticamente ridotto.

Oh yeah!

Ora la cattiva. La cattiva notizia è che quelle due sole medicine che deve continuare a prendere, mattino e sera, per 40 giorni una e per 90 giorni l'altra, sono potenzialmente eccitanti (NB. In caso di tosse secca, il primo farmaco deve somministrarsi alle dosi più alte come all'inizio della terapia, quindi se al giorno 39 pensi di vedere la luce in fondo al tunnel ma parte la tosse secca, trac, devi ripartire dal via). 
Ora, ho appena scoperto che uno dei farmaci che già assume da una settimana altera il sonno e l'umore, non nel senso che fa dormire e fa vivere quietamente una vita serena (a tutti), ma ovviamente nel senso contrario: Alessandro ormai non sa più cosa sia il pisolino del pomeriggio. E il lettino...? Cos'è più il lettino? Quell'aggeggio che sto pensando di mettere in vendita su ebay? Ormai dorme solo con me e possibilmente ADDOSSO a me. Sarà il trauma dell'ospedale, i farmaci, boh. 
Comunque insomma, a quanto pare la bustina che ogni sera dovrà sciogliere nella pappa/yogurt/omogeneizzato per 3 mesi in alcuni casi rende inquieti i bambini. Ah, ma se la situazione andasse un po' tanto fuori controllo si potrebbe cambiare farmaco. E 'sti ca... Non possiamo dargli prima l'altro farmaco invece di rischiare di impazzire tutti quanti?

Se in gravidanza dicevo: in un'altra vita, farò la ginecologa
Se fino a poco fa dicevo: in un'altra vita, farò la pediatra
Adesso dico: in un'altra vita, farò la pneumologa. O l'esorcista.

Stasera quindi si inizia e come al solito che dire, io speriamo che me la cavo.

In ogni caso, stamattina Alessandro (che ormai tutti chiamiamo Aie perché è così che lo chiamava la nostra piccola compagna di vacanze natalizie) ha fatto anche il prelievo del sangue in ospedale ed è andata così bene che alla fine ha ricevuto anche il diploma di grande coraggio con il voto "super bravo". 
Queste sì che sono soddisfazioni!!

lunedì 4 marzo 2013

Fortuna fortunae

Premetto che ho pensato tanto se volessi scrivere o no dell'ultima (dis)avventura di cui Alessandro ed io ci siamo resi protagonisti e quando ho iniziato a scrivere e ho capito che non sarebbe stato facile rimanerne soddisfatta mi sono detta che non lo avrei fatto. Poi l'ho fatto lo stesso e quel che ne segue non è granché perché è ancora difficile mettere giù ogni cosa senza il rischio di risultare approssimativa o riduttiva, non tanto per chi legge, quanto per mio figlio e per me.

Essenzialmente, si tratta di una bronchite asmatica sfociata in insufficienza respiratoria trattata per qualche giorno nell'unità di terapia intensiva, risolta al meglio. Quindi, insomma, un colpo mica da poco, ma "all'ordine del giorno", per dirla molto male, considerato che si parla di bambini in inverno. Meno essenzialmente, quel che è stato nel profondo per noi è ancora dietro a un vetro opaco. Se mentre ci ero dentro andavo avanti concentrata come uno schiacciasassi o un cavallo con il paraocchi, al crollo dell'adrenalina sono crollata anche io. E infatti adesso mi sento come se fossimo tutti "in convalescenza". Intendiamoci, ero al posto giusto al momento giusto, quindi la paura è durata poco, ma tant'è il ricordo del respiro calante, del viso pallido e le palpebre a mezz'asta di mio figlio in braccio a me che mi sento come se fossi La Pietà di Michelangelo mi ferisce, forse poco alla luce del lieto fine o forse non tanto poco. Ancora non so.

Durante quei giorni ho incontrato tante mamme e qualche papà, tanti medici e tanti infermieri. C'era la confidenza con la malattia che porta a raccontarla come di un compagno di viaggio di sempre di cui si conosce ogni aspetto, confidenza che non significa necessariamente abitudine al dolore che comporta, ma mera familiarità. Qualche volta si può scherzare con la malattia perché l'intensità con cui ti penetra dal primo momento in cui inizi ad affrontarla fa sì che diventi un autentico "parente serpente"; spesso riesce bene ostentare leggerezza, però quello che ci si porta dentro alla fine delle proprie giornate, sia per chi è malato sia per chi gira attorno alla malattia, dal personale sanitario ai genitori, non saprei dirlo. Per mia fortuna, a me rimanevano solo tanta confusione e la sensazione che in fondo il prendere in giro la malattia durante le mie ore di veglia celasse un segno che faticava a rendersi invisibile, come una coperta troppo corta per un letto troppo lungo: per quanto la stendi, qualcosa resta pur sempre scoperto. 

Per mia fortuna, ho visto empatia e umanità, nonostante mio figlio non fosse né il primo né l'ultimo ad ammalarsi e io non fossi né la prima né l'ultima madre a vivere quella paura. Soprattutto, per mia fortuna, ho visto la cura e la guarigione. 

Comunque, l'ho detto qualche post fa: tanto vale scriverne. E a conti fatti posso dire che mi ha fatto bene.


Ad un certo punto arriva il momento in cui ci si improvvisa pediatri e Dalai Lama, ossia quello in cui si tira fuori tutto il proprio istinto materno e lo si asseconda nonostante le riserve altrui. Solo che dire alla fine "avevo ragione" non procura nessun piacere. Anzi.

Prima è arrivata la febbre del sabato sera, ma quella che non scende neanche con un estintore. Segue un respiro che si fa sempre più affannoso e accelerato e lui suda come fosse pieno agosto. Si fa mezzanotte e mezza e fuori nevica, ma si salta comunque in macchina con una destinazione precisa: il pronto soccorso.

E insomma che siamo arrivati lì e in un attimo diventiamo i primi della fila, così ci ritroviamo con la pediatra e un paio di infermiere attorno a noi che armeggiano con distanziatori, stetoscopi, mascherine e fanno domande sulle ore precedenti. "Fino a stamattina stava bene", è il filo conduttore delle nostre risposte. Tempo un paio d'ore veniamo accompagnati in pediatria, dove Alessandro ed io ci fermeremo fino alla mattina successiva. Dormire è impossibile, entrano ed escono pediatra e infermiere per sottoporre Alessandro a non so quanti trattamenti per l'asma in cui si era trasformato il colpo di tosse di qualche ora prima.

La domenica mattina lui stava solo peggio. Era diventato sempre più pallido e il respiro da veloce si stava facendo più lento. Ho invocato l'intervento di un pediatra e mi sono ritrovata a parlare con un'anestesista. Mica sapevo che in terapia intensiva lavorano gli anestesisti. Ah già, normalmente l'anestesista si occupa anche di rianimazione. "Possiamo aspettare ancora qualche ora e vedere come va", dice la pediatra. "No, dai, portiamolo su", dice l'anestesista. Al piano di sopra c'è la terapia intensiva pediatrica. E lì così siamo andati. Quella domenica Alessandro "festeggiava" i suoi 10 mesi.

Lui occupava il letto numero 4. La terapia intensiva è come una bolla. Un mondo quieto e solo apparentemente immobile, perché l'emergenza è sempre in agguato, perché è come camminare su un filo in tensione precaria ricercando l'equilibrio minuto per minuto. Alessandro è stato messo sotto a un caschetto trasparente attraverso cui passa aria che va direttamente su bocca e naso per aiutare i suoi bronchi ostruiti ad aprirsi. Sembrava un astronauta e a tratti riuscivo a prenderla come qualcosa di buffo, come se fosse solo una delle tante divertenti stranezze portate nella mia vita dal mio bambino. Però, mentre guardavo la neve cadere fuori dalla finestra mentre stringevo la mano di Alessandro seduta accanto al suo lettino, lo stordimento e la tristezza e la paura che si muovevano in sottofondo emergevano placidamente e si trasformavano in coraggio. Ne avevo già parlato, del coraggio, in un post di qualche tempo fa. Già, alla fine è sempre quello. Il coraggio delle mamme per cui vicino al mio piccolino diventavo una roccia e davanti ai medici ascoltavo con lucidità e non esisteva senso di solitudine e stanchezza che pesassero. Il coraggio per cui mi sentivo al sicuro dentro e fuori. 

E poi c'era la musicoterapia. Uno si immagina musica classica o New Age. E invece no: "So What?" di Pink, "Paradise City" dei Guns N' Roses sono solo alcune delle canzoni che ricordo di aver sentito in quei giorni. La mia idea è che quella sia la terapia per i parenti dei pazienti più che per i pazienti. Di certo, a me ascoltare "Twist and shout" dei Beatles mentre un infermiere mi spiegava come capire che il bambino stava dormendo guardando solo il monitor che indicava la sua frequenza respiratoria a me ha fatto bene. 

Sull'onda di uno stato d'animo positivo mi sono anche intrufolata nel reparto maternità per rivedere la "nostra" stanza dei giorni della permanenza in ospedale dopo la nascita e sì, è stato dolce e amaro allo stesso tempo, ma come poteva essere altrimenti?

Il martedì ero uscita per una passeggiata di decompressione in un improvviso e quanto mai benvenuto squarcio di primavera quando ho ricevuto la telefonata con cui dalla terapia intensiva mi informano che Alessandro stava per essere trasferito nuovamente in pediatria. Non che fosse proprio in forma quando l'ho trovato in pediatria, anzi, continuava a essere imbronciato e sonnolento, ma la rapidità del miglioramento è stata impressionante. Comunque la pediatria mi è sembrata il parco giochi: bambini che camminavano sulle proprie gambe, senza maschere per l'ossigeno sul viso né flebo. Assurdo come in un attimo fosse cambiato il mio punto di vista. 

Nella nostra stanza in pediatria avevamo a disposizione un letto per lui e una poltrona letto per me, che non ho neanche mai aperto. Lì abbiamo sempre dormito insieme. Se già eravamo uniti, in quei momenti eravamo tornati come quando lui era nella mia pancia, unito a me e dipendenti fisicamente l'uno dall'altra. Lì ha ricominciato lentamente a mangiare, a volersi muovere e a sorridere. Che meraviglioso stupore, che montagna russa.

Siamo tornati a casa giovedì pomeriggio, con un elenco di terapie che sembra la lista della spesa settimanale, ma eravamo pur sempre tornati dove tutto era iniziato. Durante il tragitto in auto rivivevo i momenti della prima volta in cui in aprile avevamo portato Alessandro a casa di appena 3 giorni. Guardavo le strade che mille volte abbiamo percorso insieme, io a piedi e lui nel suo passeggino, d'estate e d'inverno, nella nostra incasinata ma bellissima quotidianità, piena di piccoli e grandi riti e soprattutto d'amore. Non vedevo l'ora di ricominciare, lui ed io. Di rivederlo salire le scale mentre io mi lancio per fermarlo prima che scivoli, o aprire l'acqua del bidet bagnandosi fino al pannolino con il suo sorriso a 6 denti. Scacciavo finalmente i pensieri tristi e, mentre ci stringevamo per le dita, riprendevamo a respirare, tutti e due, insieme.