venerdì 9 novembre 2012

The first cut is the deepest...

...Ho messo via un po' di legnate
I segni quelli non si può
Che non è il male nè la botta
Ma purtroppo è il livido...

Lo canta Ligabue e lo pensavo oggi chiacchierando con alcune mamme a proposito delle nostre impressioni reciproche. Che poi è proprio quel livido l'ostacolo a rapporti nuovi, d'amicizia, d'amore o professionali che siano. Il livido genera una zona più fragile che ha memoria del dolore e la ricorda sempre a se stessa e alle altre parti del corpo. Una memoria che con il tempo va sotto a tanti strati di ragionamenti, esperienze e polvere, ma che rimane. Qualche volta si nasconde e qualche volta si rivela: per distruggere, autoalimentarsi e confermarsi, ma, qualche volta anche per chiedere il permesso di togliere il disturbo solo dopo essersi fatta conoscere. Che resti in ombra o  che si esponga, non il livido resta mai silente. Spesso assume le vesti di altro da sé, ma, anche mascherato, con la sua prepotenza riesce a sprigionare in superficie tutta la sua energia, come un terremoto provocato da un movimento in un punto non ben determinato del sottosuolo. 

Così a volte ci si perde quel che di buono può accadere o sta addirittura già accadendo su questo terreno, ricco a dispetto delle apparenze, per timore che quel livido venga di nuovo scoperto. E non è che più si va avanti con gli anni più la maturità e l'esperienza ci trattengono dal tirare su le solite barriere. Anzi. In realtà, almeno in una visione ideale, maturità ed esperienza dovrebbero fungere da esplosivo per i muri. Quante volte si pensa: "Ho imparato la lezione, questa volta non ci casco!" e non ci si accorge che invece l'errore sta proprio nel non esporsi ancora una volta? Perché si pensa che il rischio che si corre a mettere in mostra una parte di sé divenuta sensibile sia necessariamente un'altra legnata e non una bella sorpresa? Fortunatamente l'istinto di sopravvivenza spesso viene in soccorso e ci aiuta a spingerci un po' oltre il nostro scudo di protezione, così si impara che maturità ed esperienza possono costruire anche reti accoglienti in caso di caduta, non solo nuovi mattoni. All'inizio è un volo senza paracadute, nel bene e nel male. Dopo, l'alternativa non è necessariamente non spiccare il volo, ma è anche volare avendo la cura di portarsi appresso un paracadute. La saggezza sta nella capacità di fabbricarsi da sé un buon paracadute, non nel rimanere a terra.

Tutto questo per dire che ci sono persone che volontariamente o involontariamente aprono delle porte dentro di noi e più o meno inaspettatamente sanno guardarci dentro. Il livido direbbe "fuori di qui", mentre la nostra parte saggia dovrebbe dire "benvenuto". Chissà che non ci siano parti di noi che ad occhi altrui si mostrino più belle di quanto noi stessi crediamo, che diventino per altri una fonte da cui attingere e che agli altri ci uniscano e che non ci sia già chi ha scoperto della ricchezza dove noi pensavamo di celare aridità. Per alcuni siamo trasparenti per quanto ci impegniamo a oscurarci.

Rifletto su questo lungo e lento processo e mi accorgo che in questo periodo, da un po' di tempo forse, ci sono già dentro con tutte le scarpe. Ci sto lavorando e credo di aver già fatto qualche passo avanti. Forse ho qualche buon motivo per volare e un buon paracadute.

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