giovedì 2 febbraio 2012

Lezioni di felicità

Riesumato un paio di Dr. Martens bordeaux che non indossavo dai tempi del liceo, stamattina ho affrontato l'ultima spruzzata di neve. Ho impiegato circa 10 minuti per riuscire a infilare i piedi nelle scarpe: si saranno gonfiate le caviglie? Naaaaaaaa! La schiena è talmente a pezzi che non posso neanche più piegarmi di qualche grado? Naaaaaaaaa! Mi illudo che la fatica fosse dovuta alle dimensioni spropositate della mia pancia che ormai compromettono ogni più piccolo movimento, ma soprattutto allo spessore dei miei calzettoni antigelo. E poi quelle scarpe sono rigide davvero. In cuor mio, però, so che la ragione di tanta sofferenza è solo da ricercare nella ritenzione idrica che attanaglia i miei piedi e nelle fitte insopportabili che mi devastano la parte bassa della schiena, ragioni per le quali qualche volta la mattina considero l'ipotesi di non alzarmi dal letto fino ad aprile. In ogni caso: ho camminato sui marciapiedi innevati, ho fatto una piccola corsa per arrivare a salire sull'autobus tipo assalto alla diligenza e non mi sono sfracellata al suolo: le scarpe hanno retto anche così, quindi è valsa la pena lottare tanto con le scarpe perché evidentemente erano adatte allo scopo.

Riflettuto su ciò e su altro, mi dico che troppe volte ci soffermiamo sul, o sui, perché esistano dentro di noi forze oscure negative che talvolta emergono frenandoci o, addirittura, facendoci comportare come non vorremmo; di fatto, invece, non analizziamo mai abbastanza il, o i, perché siamo animati da spinte e risorse positive che ci consentono di andare sempre avanti, sempre oltre, verso i nostri obiettivi, raggiungendoli o anche solo avvicinandoli molto. La lotta con le scarpe di questa mattina è stata di ispirazione per questa riflessione. Avrei potuto rinunciare all'uscita sotto la neve, pur di non affrontare tanti ostacoli, dati i miei acciacchi; stremata e scoraggiata, avrei potuto decidere di rassegnarmi ai miei limiti e per le ore successive ne avrei risentito negativamente, con l'autostima sotto la suola delle scarpe. Invece, ho affrontato uno sforzo dietro l'altro e ce l'ho fatta. No, non sono state solo le endorfine buone, né l'idea del pranzo in uno dei locali che amo di più insieme alla mia dolce metà: c'è stato qualcosa di più, qualcosa di mio, nato e cresciuto dentro me sola a prescindere dal resto. Qualcosa che evidentemente c'è sempre, anche se non prevale ogni volta. 

Insomma, credo che sul perché tante volte riusciamo a mettere la marcia in più non riflettiamo mai quanto dovremmo, almeno non quanto non facciamo sul perché tante volta inneschiamo il freno a mano. Ci rivolgiamo agli psicoterapeuti per avere risposte alla domanda: "Dottore, perché sto male?", ma mai per chiedere: "Dottore, perché riesco a stare così bene?". Il che è un peccato. E, alla fine, mi dico che conoscere ciò che è positivo in se stessi ci serve e ci arricchisce tanto quanto il conoscere ciò che è negativo. Con il vantaggio che l'avere familiarità sui perché della nostra positività può insegnarci a trattenere il buono, a renderlo nostro fedele amico e a rendere noi più fiduciosi, capaci e felici di esserlo.


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